
Nella vita cristiana si parla spesso di “seguire Gesù, di essere veri discepoli o di prendere la propria croce“. Sono espressioni familiari e, in un certo senso, giuste.
Del resto, Gesù stesso ha rivolto un invito radicale a chi voleva seguirlo:
Chi vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua (Luca 9:23).
Parole dirette, senza sconti. Perché Gesù non ha mai cercato fan, curiosi o spettatori ma persone disposte a seguirlo con tutto il cuore, anche a costo di lasciare tutto.
Il discepolo nei Vangeli
Ai tempi di Gesù, avere dei discepoli era normalissimo.
Nel contesto dei Vangeli, questo invito aveva un significato molto specifico: Gesù era il Rabbì, il Maestro, e come ogni rabbino del tempo, formava dei discepoli (talmidim, in ebraico), uomini che lo seguivano da vicino per imparare non solo ciò che diceva, ma come viveva.
Era normale, nella cultura ebraica del primo secolo, che i maestri spirituali avessero discepoli. Era parte del tessuto sociale e religioso dell’epoca.
Pensiamo, ad esempio, a Giovanni Battista, aveva i suoi discepoli, persone che si affidavano a lui, imparavano dal suo insegnamento e lo seguivano nel deserto. Oppure Gamaliele, un rabbino molto rispettato, maestro di Paolo, che aveva discepoli attenti a imparare da lui la legge e la tradizione ebraica (Atti 5:34-40; Atti 22:3).
Questo tipo di rapporto prevedeva un percorso serio, fatto di studio, pratica e un legame profondo con il maestro. Quando Gesù chiamò i dodici discepoli, li inserì proprio in questo contesto culturale.
Quindi sì, il linguaggio del discepolato è perfettamente sensato nei Vangeli, ma siamo sicuri che sia ancora quello il centro della vita cristiana, oggi?
Discepoli si diventa, ma …
Quando Gesù parlava di “prendere la croce”, era un modo per far capire alle persone quanto fosse radicale seguirlo. (Ne parleremo meglio in un altro articolo, ma intanto ti lancio un assaggio…)
Era un richiamo forte, quasi provocatorio: “Vuoi farcela da solo? Ok, allora sappi che serve dare tutto.”
Un po’ come Israele al Sinai, in Esodo 19:8 quando disse con entusiasmo:
“Tutto quello che il Signore ha detto, lo faremo!”
Bella dichiarazione ma il risultato? Una lunga, lunghissima storia di fallimenti.
Anche oggi, quando viviamo la fede da “discepoli ”, rischiamo di ricadere nello stesso schema: tanto impegno, poca grazia. Come se tutto dipendesse da quanto siamo bravi a seguire il maestro. Ma il Vangelo non ci chiama a essere discepoli. Ci chiama a qualcosa di molto più profondo e lo vediamo chiaramente in un dettaglio spesso trascurato.
Hai mai notato che dopo il libro degli Atti, la parola “discepolo” non viene più usata. Nessuna lettera di Paolo, Pietro, Giacomo o Giovanni ne parla.
E non è un dettaglio da poco. La Bibbia non spreca parole. Se qualcosa cambia, c’è un motivo.
Si parla di:
– Figli di Dio (Romani 8:15)
– Coeredi con Cristo (Romani 8:17)
– Santi (Efesini 1:1)
– Fratelli (Ebrei 2:11)
– Nuove creature (2 Corinzi 5:17)
Come a dire non sei più un seguace, ma tutto questo.
E in effetti, basta guardare com’erano i discepoli prima e dopo la risurrezione.
Prima? Pietro provava a seguire Gesù, ma lo rinnega tre volte (e con bestemmia!). Giovanni e Giacomo volevano invocare fuoco dal cielo sui Samaritani. Gli altri litigavano su chi fosse il più grande, spesso senza capire nemmeno le parole del Maestro.
Ma dopo la risurrezione qualcosa cambia profondamente. Pietro diventa il coraggioso predicatore della Pentecoste. Giovanni non chiede più fuoco dal cielo, ma scrive parole d’amore sul cuore di Dio.
E allora si apre una domanda: Che cosa ha portato questi discepoli a cambiare così radicalmente? Semplice, sono diventati figli .
Ed è qui il punto: discepoli si diventa, ma figli si nasce.
Quindi essere discepoli non è “meglio” di essere credenti anzi, è una fase incompleta rispetto alla realtà piena dell’essere figli di Dio in Cristo Gesù.
Allora fare discepolato è sbagliato?
No. Non si tratta di dire che discepolare, istruire, formare sia sbagliato. Il problema non è la formazione spirituale ma il filtro con cui lo si fa.
Se insegniamo alle persone a seguire Gesù come se dovessero diventare qualcosa, stiamo ignorando il Vangelo.
Perché il Vangelo ci dice che in Cristo siamo già una nuova creatura (2 Corinzi 5:17), siamo già stati accettati (Efesini 1:6), abbiamo già lo Spirito dentro di noi (Romani 8:9), e che come Lui è, così siamo noi in questo mondo (1 Giovanni 4:17)..
Allora la vera formazione spirituale non è: “Fai di tutto per diventare un bravo discepolo” Ma: “Scopri, cresci e maturi in ciò che sei già: figlio di Dio.”
Meno corsi più percorsi
Immagina se in chiesa, invece di un Corso di Discepolato, ci fosse un Percorso per Figli Amati. Suona strano, vero? Ma è molto più vicino al cuore del Vangelo.
Un genitore non dice: “Imita la mia vita per meritarti un posto a tavola.” Piuttosto dice: “Tu sei mio figlio, e voglio insegnarti a vivere bene in questa casa.”
La formazione c’è, certo. Ma nasce dall’identità, non dalla performance.
Questo non significa che la vita cristiana sia passiva o priva di impegno. Anche Paolo dice: “Tratto duramente il mio corpo…” (1 Corinzi 9:27). Ma lo fa non per guadagnarsi qualcosa, bensì per vivere pienamente ciò che ha già ricevuto.
E allora, da pastori, insegnanti, genitori spirituali…
Vogliamo ancora formare discepoli o aiutare figli a crescere in quello che già sono?
