Il rischio di dimenticare chi siamo

Il temine discepolo, ricorre 264 volte nel Nuovo Testamento. I Vangeli e gli Atti usano questa parola 262 volte come termine narrativo, semplicemente per raccontare i fatti di una storia. Ma ci sono due eccezioni importanti in cui questo termine non è usato solo per narrare, bensì per esprimere il significato dell’essere discepoli.

Perché sì, magari pensiamo di averlo capito, ma non è detto che il nostro modo di intenderlo sia lo stesso di Gesù. Anzi, è possibile che ci abbia detto qualcosa di molto diverso da come ce lo immaginiamo.

Il Grande Mandato

La prima eccezione è naturalmente Matteo 28, il Grande Mandato, dove Gesù dice:

 «Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo… (Matteo 28:18-19)

Ora, nella maggior parte delle nostre Bibbie leggiamo: “fate miei discepoli”. Ma in greco letteralmente sarebbe “fate studenti” cioè persone che imparino, osservino, seguano.

E qui si apre un discorso interessante.

Nel tempo di Gesù, un discepolo era, molto semplicemente, qualcuno che stava imparando. C’erano discepoli e forme di discepolato ben prima che qualcuno fosse chiamato cristiano. Lo si vede nei Vangeli che sono pieni di discepoli che stanno ancora cercando di capire chi è Gesù molto prima di essere nati di nuovo.

Con il tempo, però, questa parola – discepolo – ha iniziato a caricarsi di altri significati. Oggi la si sente spesso legata a programmi, percorsi, livelli, avanzamenti spirituali. Come se essere discepoli significasse essere cristiani più seri, più formati. Quasi un’etichetta “premium”, che distingue chi ha fatto un passo in più.

Ma fermiamoci un attimo. È davvero questo che intendeva Gesù?

Quello che chiamiamo il Grande Mandato in Matteo 28, è rivolto a un pubblico preciso: gli ebrei.
Matteo, infatti, scrive proprio per loro, che avevano ben chiaro il concetto di discepolato. Perché prima ancora che Gesù arrivasse, discepoli e rabbini erano una realtà conosciuta nel mondo ebraico.

Ma… perché glielo dice?

Perché avevano un problema di visione: tendevano a pensare che il Vangelo fosse solo per loro, per il “popolo eletto”. Gesù invece li esorta: “Andate, fatelo per tutti i popoli.” In altre parole: “Il messaggio non è solo vostro. Va condiviso con il mondo.”

E qui viene il bello, perché i discepoli predicheranno il vangelo in tutto il mondo ma non seguendo alla lettera le parole nel Vangelo di Matteo. Infatti, lo stesso Grande Mandato lo troviamo anche nel Vangelo di Luca, dove Gesù usa parole diverse e dice:

…nel suo nome si sarebbe predicato il ravvedimento e il perdono dei peccati a tutte le genti, cominciando da Gerusalemme. Ed ecco, io mando su di voi ciò che il Padre mio ha promesso; ma voi rimanete in città finché siate rivestiti di potenza dall’alto.” (Luca 24:46-49)

Noti la differenza? Stesso evento, stesso messaggio, ma l’accento cambia. Infatti in Luca non è riportato il termine discepolo perché Luca scrive ai gentili a persone come noi.

Quindi sì, Gesù aveva detto “fate discepoli” (in Matteo), ma nei fatti, i discepoli stessi hanno seguito un altro ordine: quello che leggiamo in Luca, dove prima si aspetta lo Spirito Santo e poi si predica.

E questo è importante, perché ci fa capire una cosa: il termine discepolo non è un punto di arrivo, ma semmai un punto di partenza. È il linguaggio che Gesù usa per parlare a degli ebrei, nel loro contesto, usando parole che per loro significavano relazione e formazione.

Ma nel momento in cui arriva lo Spirito Santo e la missione esplode davvero quei discepoli non vengono più chiamati così, perché in Atti 11, succede qualcosa di decisivo:

Per la prima volta, ad Antiochia, i discepoli furono chiamati Cristiani.

Da quel momento, il termine discepolo inizia a sfumare, e prende il suo posto qualcosa di più completo: la nuova identità in Cristo.

Il costo del discepolato

La seconda eccezione si trova invece nel Vangelo di Luca, è sempre Gesù che parla:

Chi non odia suo padre, sua madre, sua moglie, i suoi figli, i suoi fratelli, le sue sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Chi non porta la propria croce e non mi segue, non può essere mio discepolo. Chi non rinuncia a tutto ciò che ha, non può essere mio discepolo. (Luca 14:26-27, 33)

Parole forti, dalle quali molti hanno tratto spunto per scritti e riflessioni. Tuttavia, prima di prenderle come “oro colato”, è importante capire dove si trovava Gesù, a chi sta parlando e perché lo dice.

Il contesto è curioso: Gesù si trova a casa di uno dei capi dei farisei (Luca 14:1), durante un pranzo di sabato. E il testo ci dice che lì c’erano molti invitati (Luca 14:7). Quindi, possiamo immaginare che la casa di questo fariseo fosse molto grande, prestigiosa, con tante sale, cortili interni, ambienti ampi dove i commensali si muovevano per “scegliere i primi posti”.

E chi erano gli invitati? Farisei, notabili, personaggi in vista.

Certamente persone come pubblicani o prostitute, era difficile che fossero tra gli invitati perché gente così non veniva ammessa nelle case dei farisei, soprattutto durante i pasti sabatici. Erano considerati impuri, e socialmente esclusi.

Gesù, lì dentro, inizia a parlare. E se ricordi racconta tre parabole, tutte rivolte agli invitati e al padrone di casa. Non risparmia nessuno, mette in discussione il modo in cui fanno le cose, le loro motivazioni, il loro orgoglio. Insomma, Gesù in quel contesto non era esattamente il tipo di ospite che ti fa sentire comodo a tavola. Ma d’altronde, quale miglior contesto per dirlo? Era un ambiente pieno di maschere, apparenze e religiosità gonfiata.

Poi, alla fine del capitolo, Gesù esce da quella casa. E succede qualcosa di particolare:

Or molta gente andava con lui (Luca 14:25)

Perché?

Non perché lo riconoscessero come Salvatore, ma perché erano affascinati e incuriositi da quest’uomo. Del resto, aveva appena guarito un malato (Luca 14:2)  davanti ai loro occhi, era naturale voler vedere di più. Lo seguivano per i miracoli, non per chi Lui era. Ai loro occhi, era solo un maestro da osservare, un modello da imitare.

Ed è lì che Gesù si ferma. Si gira dicendo qualcosa a riguardo del discepolato (Luca 14:26-27, 33)

Come a voler dire: “Se mi vedi solo come un esempio da imitare, allora devi fare esattamente quello che ho fatto io. Io ho lasciato il cielo, ho dato tutto. Puoi farlo anche tu? Calcola il costo. Perché se non mi vedi come Salvatore, e solo come modello, sappi che ti sto chiedendo l’impossibile.”

Era un messaggio rivolto a chi pensava di potercela fare con le proprie forze. A chi era incuriosito da Gesù.

Ma nel capitolo dopo… tutto cambia.

Infatti in Luca 15:1, i peccatori e i pubblicani si avvicinano a Gesù. E in mezzo a loro Gesù non pronuncia parole dure. Non parla di odiare la propria vita, di torri da costruire, di essere discepoli o croci da portare. Parla solo di grazia, attraverso altre tre parabole: la pecora perduta, la moneta smarrita, il figlio prodigo.

Perché? Perché i peccatori non cercano di imitare Gesù. Cercano di essere salvati da Lui.

Discepoli o Cristiani?

Quindi, possiamo concludere che l’essere discepoli non è una tappa successiva o superiore rispetto all’essere cristiani. Nel cuore del Vangelo, essere credenti è già un dono immenso e un punto di partenza fondamentale.

Non rischiamo di prendere lo spirito del discepolato e di perdere quello di figliolanza. Perché la vera sfida non è “fare di più” o “essere migliori”, ma accettare con semplicità il dono di essere figli amati e da lì partire.

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